Un matto vicino al confine, un vecchio rifugiato sentimentale. Io sono colui che aspetta la fine. Granello in un oceano di sale. trigpim

domenica 11 marzo 2012

Autocostruito

-..Là..- con un sonoro clac il braccio prese posto nell'incavo della spalla. Flessibile come ricordava, meccanico, duro, resistente, forte.
Aveva toccato terra poche lune prima, ma i comandi erano rimasti fuori uso per via delle intemperie, così c'era voluto del tempo per attivare la deibernazione.
Le gambe cigolavano un pò, l'ultima battaglia non gli aveva dato il tempo di attivare il programma di manutenzione, così si dovette accontentare di un pò di fluido criogenico a mo di lubrificante. Mise a posto anche quelle e si issò in piedi: che strano ogni volta tornare alla sensibilità completa.
Il sarcofago era ammaccato da più lati per via probabilmente di qualche scoglio. Solo dopo si accorse del danno ai reattori.
Il computer di bordo confermò i suoi sospetti: era rimasto in mare per molto tempo. Moltissimo. Non era progettato per sbalordirsi, perciò non emise un singulto alla vista delle rovine della civiltà. Ciò che prima aveva scambiato per uno scoglio era un intero grattacielo sdraiato sul litorale sabbioso.
Gli si infilava tra i piccoli meccanismi, odiava quella sostanza.
Granchietti tintinnanti ispezionavano l'hangar, incuriositi dalle luci di stasi. La vista della Spada Bianca li fece allontanare in fretta e furia. Il vano laterale si chiuse automaticamente con un rumore sordo mentre lo scudo prendeva posizione sull'avambraccio.


Era un mondo che sognava ogni notte: le sue parti scomposte, quelle armi care-cariche di simboli. Eppure era sempre rimasto lì, rinchiuso nel sarcofago.
La maschera, la cosa più importante, la maschera della Scudo, la sua maschera, giaceva sulla sabbia bagnata, riflettendo la luce dall'impianto multifocale. La indossò, ancora una volta, in sogno ed in realtà. La maschera era ciò che gli dava forza, ciò che lo teneva in vita. Senza essa era un'automa impotente.


I suoi simboli, così palesi, così spaventosi, carichi di morte.
I suoi arti meccaniformi. Gli incastri e le giunture.

Si svegliò come ogni mattina, pelle sulle ossa, sudore in fronte. Incubi.
Cominciava a chiamarli col loro vero nome e ad amare il calore del sole sull'epidermide morbida e nuda. 
Tentennò con la testa, tanto per allungare il brodo (coda dell'occhio alla sua sinistra, ritmica di polmoni floreali) e rimanere ancora un pò sdraiato lì, nel giardino dell'Eden.


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